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domenica 16 aprile 2017

Totò conobbe Pasolini



Totò conobbe Pasolini



Roma, la città eterna, era il fondale dell’incontro tra Totò e Pasolini. Totò, o meglio, Antonio De Curtis (l’attore sarà sempre sentito dalla persona come un’esistenza a sé stante) si trasferì a Roma all’inizio degli anni Venti, in seguito al matrimonio tra la madre Anna Clemente e il marchese Giuseppe De Curtis, che lo aveva riconosciuto come figlio legittimo solo poco tempo prima. Nella capitale si mosse, per i primi tempi, in uno stato di aspra indigenza, ricco soltanto di molte speranze, saltando da un teatro all’altro con il desiderio di essere scritturato 
e di avere la tranquillità di un guadagno.


Pasolini era, invece, arrivato nell’Urbe intorno al 1950, lasciato alle spalle l’episodio scandaloso a 
Casarsa, in Friuli. Roma accolse le loro misere condizioni e li omaggiò in seguito col successo: Totò 
cominciò col varietà, fino a raggiungere la fama girando diversi film l’anno; Pasolini iniziò in letteratura, già in Friuli, ma a Roma pubblicò i suoi romanzi (Ragazzi di vita e Una vita violenta) per poi cimentarsi col cinema, dapprima come sceneggiatore e successivamente come regista con Accattone (1961), Mamma Roma (1962) e l’episodio La ricotta, del film Ro.Co.Pa.G. (1963). Si presentò a Totò con umiltà, nonostante fosse un intellettuale importante ‒ tra l’altro molto discusso, per una serie di motivi che comprende anche il suo orientamento sessuale. La divergenza tra i due comprende anche il diverso rapporto con Roma, in cui Totò visse bene, non sentendo mai l’atmosfera familiare e calorosa della sua Napoli. Pasolini descrisse le borgate e la loro povertà, l’aspetto più miserevole di Roma. Entrambi aborrivano il bel mondo borghese, il sistema corrotto dal consumismo, preferendo una riservatezza diversificata dagli stili di vita.


Silvio Bertoldi raccolse, a proposito, questo pensiero dell’attore: «Lavoro, torno a casa e mi chiudo qui dentro. Non esco mai, non vado in nessun posto. Sono pessimista, solitario, alieno dalla mondanità, odio i rumori, mi piace parlare poco». E ancora, l’attore stesso scrisse: «Dicono che sono troppo riservato, ma credo che un attore ‒ quando esce da un palcoscenico o da un teatro di posa ‒ debba appartenere soltanto a se stesso». Franca Faldini, sua ultima compagna di vita, dice di lui: «Coltivava un suo mondo inconscio che poi, rendendolo molto più vulnerabile alla realtà, lo costringeva a sfuggirla, sprofondando nell’introversione per evitare di vederselo sciupato» . In lui Pasolini scorse quella stretta, viscerale vicinanza alla miseria, quel lungo periodo infantile di anni infelici e precari, che costituiva una qualità ai suoi occhi, più che un elemento da celare col silenzio. Il mondo gramo, paradossalmente fiabesco, che Napoli rappresentava nell’animo di Totò era un fattore imprescindibile del suo modo d’essere. Pasolini lo vide chiaramente: «È di lì che viene fuori direttamente. Totò è inconcepibile al di fuori di Napoli e del sottoproletariato napoletano». Sfera sociale che Pasolini costantemente voleva indagare
 e che sceglieva come sfondo per quasi ogni opera letteraria e cinematografica.


Il loro incontro avvenne intorno ai primi anni ’60, in casa di Totò. Pasolini era accompagnato da Ninetto Davoli, giovanotto che avrebbe affiancato l’attore in ogni sua interpretazione pasoliniana, ma che allora fece a Totò una pessima impressione. Il ragazzo, preso dall’euforia di conoscere Totò, scoppiò a ridere non appena lo vide; ma il tratto che a Totò parve più detestabile di Ninetto furono i jeans consunti con cui si era presentato, tanto che, una volta finito l’incontro, ebbe a spruzzare l’insetticida lì dove si era accomodato per il caffè  (Totò teneva molto a queste formalità, all’eleganza e all’aspetto decoroso che doveva contraddistinguere un uomo). Fu un incontro permeato da nervosismo, da imbarazzo e da grande discrezione da parte di entrambi gli artisti. La Faldini lo ricorda così: «Fu l’incontro di due timidi, complessati, ognuno a modo suo. E su questa base si instaurò tra loro un rapporto di reciproca stima e comprensione. Pasolini affascinò Antonio per la sua capacità di essere colto senza salire in cattedra, per l’incisività con cui tratteggiava un certo sottoproletariato che non gli era del tutto sconosciuto, per i suoi tormenti di creatura umana. Delle sue Poesie in forma di rosa conosceva a memoria Supplica a mia madre, che lo aveva molto colpito. Viceversa, egli dovette interessare Pasolini, perché, immagino, lo riconobbe perfetto nella famelica veste dei miseri, deformato dalla grandezza dei miseri, di quella razza 
umana, ossia, che accentrava il suo interesse artistico».





Parlarono del progetto di Pasolini, il film Uccellacci e uccellini, che Totò avrebbe dovuto girare assieme a Davoli. Ricorda, a tale proposito, il produttore del film Alfredo Bini: «Totò si fidava molto di Pasolini, il rapporto era molto semplice, tutti e due gentilissimi l’uno con l’altro. La scelta l’aveva fatta [Totò] e una volta detto di sì si era affidato completamente al regista, senza nessuna remora». Lo stesso attore ebbe a dire di Pasolini: «Ho una gran fiducia nella sua cultura, nella sua preparazione». Una volta iniziate le riprese, migliorò il rapporto anche con Ninetto; con Pasolini cominciò una rispettosa e serena amicizia, riflesso della pudicizia e dell’onestà di entrambi.


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sabato 1 aprile 2017

Origini del Pesce d'Aprile


Le origini del pesce d'aprile non sono note, 
anche se sono state proposte diverse teorie. 
Una delle più remote riguarderebbe il beato Bertrando di San Genesio, 
patriarca di Aquileia dal 1334 al 1350, il quale avrebbe liberato miracolosamente un papa soffocato in gola da una spina di pesce; per gratitudine il pontefice avrebbe decretato che ad Aquileia, il primo aprile, non si mangiasse pesce. 


Un'altra teoria tra le più accreditate colloca la nascita della tradizione nella Francia del XVI secolo. In origine, prima dell'adozione del Calendario Gregoriano nel 1582, in Europa era usanza celebrare il Capodanno tra il 25 marzo ed il 1º aprile, occasione in cui venivano scambiati pacchi dono. La riforma di papa Gregorio XIII spostò la festività indietro al 1º gennaio, motivo per cui sembra sia nata la tradizione di consegnare dei pacchi regalo vuoti in corrispondenza del 1º di aprile, volendo scherzosamente simboleggiare la festività ormai obsoleta. Il nome che venne dato alla strana usanza fu poisson d'Avril, per l'appunto "pesce d'aprile".

Un'altra ipotesi vede protagoniste le prime pesche primaverili del passato. Spesso accadeva che i 
pescatori, non trovando pesci sui fondali nei primi giorni di aprile, tornassero in porto a mani vuote e per questo motivo erano oggetto di ilarità e scherno da parte dei compaesani.


In Scozia la ricorrenza è nota col nome di Gowkie Day (dallo scozzese gowk = "cuculo"), e pare che 
proprio qui sia nato il popolare scherzo che consiste nell'attaccare un avviso recitante
 "calciami" (kick me) sulla schiena della vittima.

In Italia la tradizione marinaresca vuole che in passato fosse vietato uscire in mare il 1º aprile, giorno in cui la Sirena Partenope avrebbe trasformato, per gioco e scherzo, i marinai in pesci. 
A Napoli diventa anche dolce di cioccolato proprio per compensare i pescatori del mancato bottino nel giorno sconsigliato dalla leggenda per recarsi a pescare. 
Una leggenda di cui si legge traccia anche in "Napoli Nobilissima" di Benedetto Croce.

Secondo la tradizione in Francia, nonostante il cambio del giorno del Capodanno, i francesi continuarono a scambiarsi regali tra la fine di marzo ed il 1 aprile. Proprio per questo in molti cominciarono a sbeffeggiarli e iniziarono a consegnare loro dei regali assurdi o completamente vuoti. In tale dono, poi, si trovava spesso un biglietto con la scritta “poisson d’avril” ovvero pesce d’aprile.

L’ipotesi più accreditata negli ambienti accademici fa risalire l’origine del pesce d’aprile ad un periodo antecedente al 154 A.C., quando il primo aprile segnava l’inizio dell’anno. Più tardi, la Chiesa soppresse la festa stabilendo l’inizio dell’anno il primo di gennaio.
 La vecchia tradizione continuò comunque a sopravvivere
 tra i pagani che per questo venivano derisi e scherniti.

Un’altra ipotesi, abbastanza diffusa, si rifà invece al rito pagano, legato all’antico calendario giuliano, quando il primo di aprile segnava l’inizio del solstizio di primavera. Terminato l’inverno, l’avvento della stagione primaverile segnava il rinnovamento della terra e della vita. In questa occasione, tra il 25 di marzo e il primo di aprile, si usava propiziare gli dèi offrendo doni e facendo sacrifici in loro onore. La festa era anche occasione per esprimersi in massima libertà con lazzi, burle e buffonerie. 
Con l’avvento del Cristianesimo, nell’Impero Romano feste di questo tipo furono sostituite con altre festività religiose al fine di far scomparire per sempre gli usi e le tradizioni pagane. Questo fu il destino che toccò anche alla festa del primo di aprile, rimpiazzata da quella della Pasqua. Le persone che, nonostante ciò, si ostinavano a festeggiare il vecchio rito pagano venivano ridicolizzate e fatte oggetto di scherzi e burle di ogni tipo. 
Entrambe le ipotesi, comunque, confermano la matrice pagana e buffonesca della festa, che continua tutt’oggi, seppur con sfumature diverse, a restare viva in gran parte del mondo.
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